“Sono Pazzi Questi Romani” l’ho già detto?
Sempre impegnato ad indagare aspetti curiosi del mondo romano, in Dèi e uomini nella città (Carocci, 2015) Maurizio Bettini spazia dagli usi funerari dei Romani al concetto di interpretatio (che grande spazio ha avuto negli studi di storia delle religioni, a partire da un celebre passo della Germania di Tacito), da pagine interessanti sulla religione domestica (il culto dei Lari) a riflessioni sulla corretta traduzione di auctoritas (cui confusamente si ricorre anche per rendere l’evangelico exousia) ma i due capitoli più significativi del libro sono il primo e l’ultimo.
Nel primo (Perché i Romani non ebbero una cosmogonia?), partendo dall’assenza di miti cosmogonici nella religione romana, si nota come nella cultura latina l’attenzione sia posta su quella che chiamerei polisgonia, cioè sui legami fortissimi che la comunità statale stringe fra i suoi membri, per cui le cose vengono ad essere non in un lontano momento fondativo ma solo quando sono sancite dalla città (non ci sono miti sull’origine dell’umanità ma i Romani diventano tali solo in quanto cives; non esistono miti sulla creazione della donna – a differenza delle varie Pandora od Eva) ma la storia del “ratto delle Sabine” fa nascere le donne come cittadine e mogli/madri (due ruoli che la città definisce e regola) ed anche gli dèi assumono un nome solo quando l’urbs li fa suoi.
L’ultimo capitolo ragiona sulla curiosa confusione sorta riguardo al parto ‘cesareo’, il cui nome deriva ovviamente dal verbo che vale ‘tagliare’ (caedo) ma che, per influenza di alcuni glossatori, ha portato a pensare in età moderna che si chiamasse così partendo dalle circostanze della nascita di Giulio Cesare o di un suo antenato (a meno che ‘Cesare’ non venisse dalla parola punica per ‘elefante’, #sapevatelo) – ma giova ricordare che nell’antichità il parto ‘di taglio’ veniva fatto solo come extrema ratio in caso di difficoltà nel parto e portava al massimo alla sopravvivenza del nascituro, non della madre, con annesse credenze riguardo alla particolare condizione di ‘non nato’ che gli veniva attribuita.