l’Orlando era il piano b
Pare che ad un certo punto Pietro Bembo avesse consigliato a Ludovico Ariosto di non trascurare la poesia in latino, ma il ferrarese gli rispose che preferiva essere il primo nella lingua italiana (lui dice “”toschana”) che un buon secondo in quella latina, ragion per cui la sua produzione in latino è decisamente meno nota dell’Orlando furioso, delle Satire e di commedie come La Lena.
Per rimediare, c’è Latin poetry, curato da Dennis Looney e Mark Possanza, che ricostruisce l’ipotetico libellus che lo stesso Ariosto non pubblicò in vita (ma vi sono tracce di un suo progetto a tal fine) e che lo trova impegnato per lo più a saccheggiare Virgilio e gli elegiaci in genere per comporre quadretti pastorali, elogi della sapientia (De laudibus Sophiae, in cui, da buon neoplatonico di fine ‘400, tira in ballo un po’ tutti da Vulcano al ter maximus Hermes al legifer Moses – ! -) e parecchi epitaffi funebri (24 in tutto) ed alcuni versi d’amore, in cui dichiara di non voler dividere la sua donna con nessuno (tecum ego mancipiis, mensa, lare, vestibus utar / communi sed non utar, amice, toro); rari i testi esplicitamente mitologici, ma c’è una cosa sugli Argonauti in asclepiadei terzi (!) che sarebbe in realtà allegorico invito agli Estensi a riprendersi il Polesine dai Veneziani (!!).
Da bravo poeta di corte Ariosto compone anche un epitalamio per celebrare l’arrivo a Ferrara di Lucrezia Borgia per le sue nozze con Alfonso d’Este nel febbraio del 1502, ispirandosi al c. 62 di Catullo ed immaginandosi due cori contrastanti – da una parte i Romani disperati per aver ‘perso’ Lucrezia, i Ferraresi esultanti per averla accolta (non ricordo bene, ma non mi pare che Lucrezia fosse ‘sto grande acquisto) e si diletta in poesia d’occasione, ma direi che gli è andata meglio con la lingua toschana…
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