36 days that changed nothing
Che il sistema elettorale statunitense fosse un po’ contorto è cosa nota (Hillay Clinton ha avuto quasi 3 milioni di voti più di Donald Trump, per dire), ma quello che accadde alle elezioni presidenziali del 2000 le batte tutte.
I candidati alla presidenza erano il governatore del Texas George W Bush ed il vice del presidente uscente, Al Gore; la campagna elettorale non fu tra le più avvincenti (di Gore ricorderemo la moglie, grazie alla quale ci sono ‘avvisi per genitori‘ sui dischi colle parolacce, di Bush la curiosa riduzione di Gesù a ‘filosofo‘) ma quello che successe la sera delle elezioni, per quanto fosse prevedibile un testa-a-testa, fu incredibile.
La lunga vicenda giudiziaria che per più di un mese non permise di individuare il vincitore è raccontata da Jeffrey Tobin nel suo Too close to call, lettura non così intrigante – data la materia – quanto l’altro suo libro sugli scandali di Bill Clinton, perché questioni sulle schede di voto, macchine per contare i voti che si inceppano, complesse diatribe di giurisprudenza tra corti statali e federali, sentenze storiche della Corte Suprema non sono così intriganti quanto tracce di sperma su abiti da cocktail o pubbliche umiliazioni in tv dell’uomo più potente del mondo.
A quasi vent’anni di distanza, degli scandali di Clinton resta solo un morboso ed imbarazzato ricordo, mentre le questioni sollevate dalla trasparenza e correttezza del momento più alto di una democrazia restano apertissime, per quanto nel caso specifico, sebbene diverse valutazioni facciano ritenere che Gore in realtà avrebbe avuto la maggioranza in Florida, una diversa sentenza della Corte Suprema non avrebbe cambiato le cose…