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tanatòlogi

12 febbraio 2017

9788806200992_0_0_300_80Lettura allegrissima, Che cosa vuol dire morire raccoglie (a cura di Daniela Monti) lunghe interviste a sei intellettuali che si possono a vario titolo definire filosofi, alla ricerca della risposta cui tutta la filosofia occidentale da sempre tende (a partire dal buon Seneca, per il quale tutta la vita non è altro che prepararsi alla morte), con maggiore insistenza negli ultimi decenni, quando la morte non è più “subitana e atra” ma medicalmente rinviata quasi sine die, in un contesto in cui, dice qui Schiavone (il cui sapere esce dai confini in cui lo pensavo limitato), siamo già in un’epoca di post-naturalità.

A voci di non credenti come Schiavone o di atei affascinati (“Dio è il più grande progetto di donazione di senso al mondo”, dice Remo Bodei – e leggo per la prima volta qualcosa di Roberta De Monticelli, che m’intriga assai), si uniscono quelle di cattolici di antica (come Giovanni Reale, prolisso come lo ricordo dal manuale di filosofia che avevo al liceo, che sviluppa qui l’idea della vita come ‘bene collettivo’) o recente formazione (Vito Mancuso), mentre l’ultimo intervento è del sempre lucidissimo Emanuele Severino, sul lungo processo che ci ha portati a sostituire la tecnica a Dio.

Senza che questo ci abbia dato particolari certezze, eh.

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