storie di colonne infami
La peste produce solitamente migliaia di morti e grande letteratura, come attestano la peste di Atene del 430 aC (Tucidide e Lucrezio), la peste fiorentina del 1348 (il Decameron di Boccacio), la peste milanese del 1628 (I promessi sposi di Manzoni) e quella surreale dell’Algeria (La peste di Camus), tanto per restare nell’ovvio.
Di contro, la grande peste londinese del 1665 ha prodotto il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, che non è neanche benissimo chiaro se sia un documento storico (sarebbe un ‘diario’, ma l’autore al tempo aveva tipo 5 anni) od un romanzo educativo ed è un filino noiosetto (per quanto Defoe abbia altrove mostrano parecchia inventiva).
Il narratore (alla fine si firma H F e sarebbe un parente di Defoe che, pur avendo la possibilità di ritirarsi in luoghi più salubri, decide di restare a Londra affidandosi alla provvidenza divina) descrive, senza particolare pathos ma con un approccio quanto più scientifico possibile per l’epoca, il diffondersi della peste, la superstizione popolare che faceva il successo di imbonitori ed imbroglioni, i provvedimenti pubblici presi per l’occasione (che fanno molto grida), la chiusura obbligatoria delle case in cui si manifestava l’infezione (con gli abitanti dentro), il triste lavoro dei monatti, le condizioni dei lazzaretti, la questione degli untori, il puntuale aggiornamento del numero dei morti (quasi 40mila, solo fra il 22 agosto ed il 26 settembre) e l’infinita vanità del tutto…