amare è una cattiva sorte
Non ricordo se l’ho già scritto, ma ho iniziato a leggere Proust l’ultimo anno di liceo, perché se ne parlava nella letteratura italiana che mi pare lo collegasse in qualche modo a Italo Svevo (avevo da poco letto La coscienza di Zeno) e a Freud.
Ricordo anche che la mia professoressa disse che era un libro che si leggeva in una vita intera, non credo riferendosi tanto alla mole quanto alla profondità della Recherche ed al fatto che serva aver avuto una vita per poterla affrontare (avrei voluto dirlo ad una mia studentessa che lo stava leggendo quest’anno e che ne ha letto tre volumi in tre mesi).
E così iniziai Dalla parte di Swann, per poi mollarlo a metà, probabilmente per passare a qualcosa di Bret Easton Ellis o a ripassare “le riviste del ‘900” per paura che me le chiedessero alla Maturità.
Ho ricominciato una decina di anni fa, talora lasciando passare anni tra un volume e l’altro, ma ora, dopo Albertine scomparsa, ho finito anche il Tempo ritrovato, in cui il narratore pare indeciso se passare più tempo in clinica o frequentando un club sadomaso (è la Stanza 43 cui aveva fatto cenno un commentatore di cheremone e ora che mi aspetta), mentre è scoppiata la I guerra mondiale e gli Zeppelin sorvolano Parigi.
Accortosi che sono successe troppe cose per essere Proust, la seconda parte del volume è tutta una riflessione sull’Arte (“la sola vita realmente vissuta è la letteratura”), sul Tempo (“è con gli adolescenti che la vita fa dei vecchi”) e su una matinée dai Guermantes (pagine postume messe insieme alla meno peggio, con parecchie contraddizioni e sviste d’autore), finché non appare, inesorabile, la parola fin.
Lo dovrò riprendere in mano tra vent’anni, quando avrò vissuto abbastanza.
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